martedì 9 settembre 2008
Tra calcio e guerra: domani la Nazionale di Cuper sfida l'Italia
Misure antiterrorismo per la Georgia blindata
Si portano dietro la guerra, i ragazzi della Georgia, anche se sono a duemila chilometri da casa, alle porte di Udine, a tirar calci a un pallone. Perché mica puoi dimenticare le bombe, i carri russi, i profughi, soprattutto se là giochi e vivi, tutti i giorni: «E’ davvero molto difficile pensare al calcio in queste situazioni - racconta Irakli Klimiashvili, vent’anni, occhi chiarissimi e capelli alla Nedved, centrocampista della Wit Georgia di Tbilisi - ma questa è la nostra professione e dobbiamo farla anche per rappresentare la nostra nazione». Quando tutto è cominciato, era a casa, con papà, mamma e il fratello: «Per me non ho avuto paura - dice - temevo solo che i russi bombardassero le città e ammazzassero tante persone. Ora spero moltissimo che con l’aiuto di Dio la situazione si risolverà il prima possibile, perché si possa tornare a vivere normalmente».
Di normale, adesso, può esserci poco, anche per chi, come loro, ha potuto andar in giro per l’Europa: «Appena scoppiato il conflitto dovevamo giocare un’amichevole con il Galles, ma il consolato inglese di Tbilisi era già stato evacuato. Così ci siamo dovuti fare un viaggio in pullman di 14 ore per Baku, in Azerbaijan, dove, presi i visti, siamo decollati. Un viaggio lungo due giorni». Non è normale neppure qui, a Udine. L’hotel che ospita la Nazionale (e anche Vasco Rossi), alle porte della città, è sorvegliato dalle forze dell’ordine, così come il campetto di Tavagnacco, pochi chilometri a nord. Ieri mattina c’erano tre auto della polizia, due dei carabinieri e un’unità degli artificieri con i cani. Misure da antiterrorismo, insomma. Unici indizi di pallone, le urla di Hector Cuper, in italiano, e un manipolo di ragazzini alla caccia dell’autografo del milanista Kakha Kaladze, o di chiunque uscisse dal cancello.
Doppio allenamento a porte chiuse, si fa per dire, perché poi dalla rete attorno i bambini sbirciavano facilmente. «Sono felice di essere tornato in Italia - le uniche parole del tecnico - abbiamo una partita difficile, ma possiamo farcela». Kaladze parla d’altro, invece: «Ora in Georgia la situazione è un po’ più tranquilla, ma a Poti ci sono ancora i russi, così come i profughi», per i quali il difensore ha racconto 180.000 euro. Spera nella missione dell’Ue, anche se l’aiuto è scattato tardi: «Ma per l’Europa la Russia è troppo importante economicamente, non è una situazione facile». Al prossimo giro di qualificazioni mondiali, gli piacerebbe tornare a giocare a Tbilisi: «A Magonza, contro l’Irlanda c’erano i 2.000 georgiani che vivono in Germania, ma se avessimo giocato in casa, avremmo vinto. E’ un altra storia».
Scuote la testa, invece Irakli: «E’ stato giusto non giocare là, con i caccia russi non potevamo garantire la sicurezza dei nostri ospiti». Di loro tifosi ce ne saranno anche meno domani sera allo stadio Friuli, contro l’Italia, visto che sono stati venduti una sessantina di biglietti a georgiani residenti in Germania, contro gli undici che vivono in Friuli, mentre la federazione di Tbilisi ne ha chiesti 150. La vigilanza, comunque, resterà alta. Nei giorni scorsi il comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico aveva chiesto cento uomini in più per il piano sicurezza, che ha compreso il censimento dei cittadini russi in regione (un centinaio). Sorveglianza, così, anche stamattina per l’ultimo allenamento pomeridiano allo stadio e, domani sera, per la partita. Irakli, però, ha occhi e testa a casa. E pochi dubbi sulla Russia («Non credo all’intervento in favore delle minoranze») e sull’Urss che fu: «Noi giovani, in tutta la Georgia pensiamo che il regime non fece niente di buono, ma i miei antenati lo lodano: e non so il perché».
(La Stampa)
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Argomenti: Italia-Georgia